Quando incominciai le elementari, incominciai a prestare molta attenzione alle classi di appartenenza ma soprattutto alla differenza tra i vari anni. Ricordo che ogni anno, il primo giorno di scuola, mi chiedevo cosa stessero facendo nella classe superiore, e a quello che mi avrebbe aspettato l’anno successivo.
Allora come metro di paragone prendevo come riferimento il programma scolastico di matematica. Ricordo che in terza elementare ero elettrizzato nel poter dire che avremmo studiato le operazioni con i numeri fino a 1000. Unità, decine, centinaia, un sacco di ricordi. Ed allora, erano solo lo studio di queste che ai miei occhi mi differenziavo dai più grandi, e dai più piccoli.
Oggi tutto questo è cambiato, seppur io abbia conservato l’attenzione nei dettagli che mi differenziano dagli altri. Crescendo questa attenzione, altalenante, si è fatta complice di diverse insicurezze e paragoni incostruttivi. Perché a 24 anni non ci sono più le classi della scuola dell’obbligo a dirti dove appartieni, non esistono più le operazioni matematiche che tutti dovranno imparare, a dirti dove sei.
Esiste solo lo specchio. Può essere quello in camera da letto, che può ricordarti quanto sei cresciuto, può essere la pergamena di laurea appesa al muro, che può rimembrarti per cosa ti sei impegnato, o un colloquio di lavoro, lo specchio che riflette quanto sei grande, e quanto siano lontani i tempi del primo giorno di scuola.
Uno degli specchi più sensibili sono le persone che vediamo attorno, che riflettono l’eterna lezione di vita, e diversa, per ognuno di noi. Io alcuni li ho ritratti appesi in camera, altrettanti in evidenzia sulle mie storie di Instagram. Sono senza ombra di dubbio lo spazio che guardo con maggior orgoglio, in cui non ho mai paura di riflettermi.
Quest’anno scrissi una lettera, e in questa citavo:
“58kg di insicurezze scattate in plurimi selfie che grazie alle prospettive giuste cercano con scarso successo di soddisfare i canoni estetici che i ragazzi oggi credo perseguono.
Ma vedi, il mio Instagram non è tutto finto. Le persone mettono in evidenza i viaggi, i grandi traguardi della vita, e le belle serate con gli amici. Sul mio profilo, in evidenza troverai solo delle persone. Ne mancheranno alcune, e sono persino tante così. In misure differenti, loro sono le mie persone. Qualcuno regala un sorriso le poche volte che ci si incontra, altre non smettono mai di stare al mio fianco.
Loro sono la cosa più bella che ho.
E la parte migliore di me.
Io posso offrire questo, il mio esser fiero di ciò che amo, il mio saper amare. Non sono molto bravo, sono discutibile, spesso sono distaccato strano ed instabile, ma qualsiasi cosa vedrai fuori, se entri nella mia vita ti porterò dentro, e sarai la cosa più bella che avrò, e ti terrò così in alto da far impallidire la parola evidenza.”
Credo di aver scritto davvero poche cose così consapevolmente veritiere come questa, nel passaggio in cui descrivo lo specchio che preferisco: un amico per me è qualcuno che tiene per te un posto speciale. Quel posto non solo è tuo ed insostituibile, ma puoi sedertici quando vuoi, quando puoi, quando devi.
Ma c’è quel posto. Una persona che diventa tua amica è qualcuno che ha fatto spazio, per te. E quello spazio sarà sempre tuo, anche quando sceglierai di non sedervi più.
Così oggi, ogni tanto cedo a questa parte di me che mi ha sempre contraddistinto fin da bambino, e mi guardo attorno per capire a che punto sono. E posso scegliere, se contare il numero di sedie vuote, il numero di certificazioni appese al muro o quante esperienze lavorative positive ho avuto.
Oppure posso scegliere di guardare se c’è qualcuno seduto, posso scegliere di guardare chi è seduto, e sorridere.
E sorriderne, dell’esame non superato o del lavoro non ottenuto. Perché nessuno vuole imparare in una classe vuota, e nessuno merita di farlo.
E perché siete la cosa più bella che ho, e vi porterò dentro, tenendovi così in alto da far impallidire la parola evidenza.