Quella del 2018 è stata per me un’estate piena di spostamenti. Sono stato a Madrid, a Parigi, un mese a Manchester a studiare inglese, e all’appello manca ancora un viaggio ad Amsterdam ed un’altra meta europea ancora da definire. Tanti viaggi, tante realtà, tante persone.
Ho avuto la fortuna di andare all’immenso concerto di Beyoncé ed il privilegio di andare all’iconico show di Britney Spears, e quest’ultima, trovandosi sul podio dei miei tre artisti preferiti, ha rappresentato una delle esperienze più emozionanti che io abbia mai vissuto.
Ogni canzone mi rimembrava un ricordo del passato. Piece Of Me, cantata insieme al migliore amico degli scout, Circus, scoperta alle medie sull’N90 grazie alla mia migliore amica, Me Against The Music, conosciuta grazie a mia zia in quel lontano 2004, e così via. Un solitario riferimento va al repertorio di Blackout, il quale mi ha aiutato ad uscire da un 2016 che pareva non conoscer musica grintosa abbastanza da farmi rialzare in piedi.
Quest’estate sono successe tante cose, è cambiato tutto, ma non è cambiato niente.
Il 14 agosto ero in classe all’NCG di Manchester quando sentendo vibrare ripetutamente il mio Apple Watch presi furtivamente l’iPhone in mano per prendere visione delle tante foto che stavo ricevendo. Si trattava di video ed immagini che ritraevano il crollo del ponte Morandi di Genova, lo spettacolo più agghiacciante della mia vita. Le mie mani incominciarono a tremare, chiesi di uscire e telefonai ai miei familiari ed amici. Dopo interminabili minuti, nell’attesa di un responso da parte di mia sorella che stava per attraversare con il treno il passaggio sottostante il ponte, fortunatamente ceduto prima, tornai in classe e mi sedetti, continuando la lezione sui participle clauses.
Non ero lì, non ero nella mia patria, ma mai come quel giorno mi sentii un connazionale e soprattutto concittadino genovese. Era come se quel ponte fosse caduto addosso anche a me. Lo shock dopo la tempesta. Oggi temo che Genova sia stata vittima di una tempesta che non vedrà quiete. Nessuna quiete dopo la tempesta.
“State tutti bene è la domanda che dalla tarda mattinata del 14 agosto continuiamo a formulare e a sentirci porre. I più fortunati, quelli che non sono stati colpiti direttamente dalla tragedia, vorrebbero poter rispondere di sì “stiamo tutti bene” con l’unico scopo di tranquillizzare chi chiama o scrive messaggi di preoccupata vicinanza, ma nessuno riesce a pronunciare questa frase, se non sentendosi disonesto e sleale.
Nessuno più sta bene in questa città, siamo tutti feriti, tutti offesi, tutti increduli, attoniti, sotto shock. Chi non ha subito perdite dirette soffre la sindrome del sopravvissuto, di chi quel ponte un po’ tremante l’ha percorso 1000 volte, ma non in quei maledetti minuti e si trova, fatalmente quanto immeritatamente, incolume. “Stiamo tutti bene”, ma è una pietosa quanto evidente bugia. Possiamo, al più, rassicurare i nostri interlocutori che non eravamo su quel ponte il 14 agosto alle 11.36, ma non stiamo per niente bene.”
Le settimane successive in Inghilterra non si parlava d’altro, ed ogni giorno ogni persona che incontravo sapendo della mia città di provenienza mi chiedeva se i miei familiari e miei amici stavano bene. Genova era divenuta un hot topic della BBC, ed eravamo sulla bocca sgomentata di tutto il mondo.
Oggi mi interrogo su cosa possiamo imparare da questa tragedia. Alcune persone accusano l’ente proprietario del viadotto, altre colpevolizzano i politici d’oggi ed altre quelli in carica allora. Moltissime spargono odio tramite la tastiera ed altre seminano insulti ed offese tramite hashtag e commenti. Il mio paese sta attraversando una delle crisi sociali più buie degli ultimi cinquant’anni: qualsiasi italiano con un account Facebook sa di cosa parlo, sa cosa significa accedere alla home di Facebook e non trovare pace.
E mi interrogo, ogni giorno, per ogni tweet. Questo mio sentore mi aveva avvicinato all’ipotesi di intraprendere gli studi della comunicazione politica, facendo leva sulla mia ottima capacità di analisi, che avrebbe dovuto compensare la mia scarsa preparazione su quello che è effettivamente l’assetto politico italiano. Ma dopo attente riflessioni, tornai sulla mia rotta iniziale che vede come meta il CPM di Pavia. Perché non tutti possono fare politica, e questa credo sia la motivazione per cui spesso in politica le cose non funzionano: qualcuno è seduto su una sedia che non gli appartiene.
Spesso la speranza viene meno. La rassegnazione prende il sopravvento e ti fa tacere di fronte a coloro che non vedono quello che vedi tu, altrettanto spesso ti chiedi come mai così poche persone oggi nel nostro paese sono sul tuo stesso binario di pensiero. Umilmente mi chiedo se sono io a sbagliare. Forse siamo miopi, noi che crediamo che la vita di un essere umano valga più di qualsiasi altra cosa al mondo. Forse è un principio troppo cristiano, o troppo solidale, per il sentire comune. Forse siamo miopi ed ignoranti, forse esiste questa magica manovra alternativa.
Io la vedo surreale e magica, ma temo che agli altri basti che sia un’alternativa.
Vedo troppe vittime di leoni da tastiera, vittime di uno scorretto utilizzo e di una scarsa conoscenza dei social network che impedisce di saper leggere quelle brevi frasi con spirito critico.
Ho avuto la pelle d’oca, nel veder strumentalizzare il collasso del ponte di Genova. Ho visto presunti selfie con il ministro ai funerali di stato, ho sentito di applausi alla loro entrata, all’entrata di coloro che se di tutto hanno un merito dello stesso hanno responsabilità.
Genova da allora è in silenzio. Ci sono molte code, una parte della città è bloccata ed inaccessibile, ogni pendolare che fa uso della A10 o delle strade, o dei binari, sottostanti al ponte, ogni giorno è costretto a compiere un’altra strada per giungere alla sua meta, ed è costretto a pensare a quella tragedia. Noi della Val Polcevera siamo condannati a vedere quotidianamente quel colosso spezzato a metà. Ma stiamo in silenzio. Anche in coda, non senti un clacson fiatare. Non si vedono le scene all’italiana che siamo sempre stati abituati a vedere, come le persone urlanti, il furbo che sorpassa tutti, e via dicendo. No, stiamo tutti in coda, in silenzio, uno dietro l’altro. Ammutoliti da un evento che sentiamo ogni giorno, per ogni metro percorso nelle strade adiacenti, come nuovo.
Ma pur essendo cambiato tutto, non è cambiato niente. La routine continua imperterrita e sembra che il mondo e la vita non abbiano tempo per interrompersi ed inesorabilmente tutto procede, non c’è lutto che tenga. Nella mia vita privata quest’estate vi sono stati un paio di brevi revival interessanti, risolti in amare delusioni, ma addolcite da inesistenti aspettative. In un periodo in cui a tutto sembra separarti un muro, un enorme grazie lo devo, come sempre, ai miei amici. Ognuno di loro, e chiunque si possa ritenere tale, seppur da diverse posizioni, è stato davvero essenziale. Voi siete Lorazepam.
Estote parati è la versione latina del motto degli scout. Il senso della frase è rintracciabile sia nel significato proposto dal fondatore del movimento Baden Powell (“siate pronti, in spirito e corpo, per compiere il vostro dovere”), sia in quello attribuito dalle associazioni cattoliche al messaggio evangelico. La prima volta che a 14 anni, entrato in reparto agli scout, sentii questo motto, mi misi a ridere. Sembrava un motto così sciocco. Ed erano tutti così immotivatamente seri, a mio avviso. Come se ci fosse bisogno di essere sempre preparati per qualcosa. Come se potesse sempre accadere qualcosa per cui dovessimo trovarci preparati, come se trovarsi impreparati fosse una tragedia. Dopo quasi 10 anni ho capito cosa volesse dire. Trovarsi impreparati può diventare una tragedia, ma sopratutto, è trovarsi impreparati di fronte ad una tragedia, la vera tragedia.
Puoi lasciare per sempre le persone con cui ti sei alzato la mattina per tre anni, puoi partire per un mese a studiare ad agosto anziché goderti il sole di Ibiza, puoi conoscere delle persone sapendo che non le vedrai più, puoi soffrire per amore, puoi soffrire perché non c’è amore, puoi disgustarti per le persone su Grindr al Gay Pride come per i leghisti su Facebook, puoi ricevere la telefonata che non vorresti mai avere il giorno prima della tua laurea e puoi venire a sapere che a 1000 km di distanza nella città in cui vivono le persone che ami è mancata la terra sotto i piedi, ed ad altre questa è crollata addosso.
Tutto questo può succedere, e succede. Molte persone in questo 2018 si sono complimentate con me per diversi piccoli traguardi o per un semplice ‘sei ancora qui’.
A loro voglio rispondere adesso, con un semplice “estote parati“.