“Lei non sembra affatto malato”.
Così esordì il cappellano durante il suo giro visite, al mio sesto giorno di ricovero presso l’ospedale Gaetano Pini di Milano.
In passato non sono mai stato, di indole, sensibile alle sentenze bieche ed approssimative nei miei riguardi. Con la mia naturale tendenza a mettere sempre in discussione tutto, queste si rivelavano solo punti di riflessione, seppur non richiesti.
Ma le cose sono cambiate.
Non è un biglietto da visita che col maturare degli anni amavo portare con me. Tra le varie criticità che potevano contraddistinguermi, quella dell’artrite idiopatica giovanile non era quella più visibile, percepibile, e invalidante. Almeno, non direttamente.
Quello che il cappellano ignorava è che non ero un semplice paziente di reumatologia che lui erroneamente contrapponeva ai post-operatori di ortopedia, ma ero il più giovane del mio reparto poiché l’unico maggiorenne in struttura con un esordio di artrite reumatoide in fase di sviluppo, ed ignorava anche l’enorme e silente complessità sintomatologica di tale patologia.
Ammesse le buone intenzioni di un uomo che faceva solo il suo lavoro, realizzai che l’opinione di quell’uomo di fede rappresentava in qualche modo un’opinione comune.
La sintomatologia dell’AIG è particolare, prevede altalenanti infiammazioni di una o più articolazioni per periodi che spaziano da minuti ad anni.
Ma non solo, essa include un gruppo di malattie le cui caratteristiche cliniche possono sovrapporsi tra loro, includendo patologie come la psoriasi, il morbo di Crohn e la colite ulcerosa.
E seppur si tratti di una malattia cronica, l’AIG prevede periodi sintomatologici di remissione, così come di riacutizzazione.
Si accende e si spegne.
E spesso, sai dove si spegne, ma non sai dove si riaccenderà.
Io sono stato protagonista di un fortunato e da me sottovalutato periodo di remissione negli ultimi anni, conclusosi negli ultimi mesi. E così, a dieci anni di distanza dal mio primo ricovero diagnostico mi sono ritrovato nello stesso letto.
L’epilogo di una storia poco conosciuta. Una storia fatta di piccoli e silenti aneddoti.
Aneddoti che il capellano della struttura ospedaliera chiaramente non conosceva.
Tra i quali le innumerevoli volte in cui sono stato costretto a condurre la vita regolare dei miei coetanei con il doppio della fatica, le volte in cui ho adempito a mansioni per me più impegnative per stare al passo dei miei compagni o colleghi, quanti turni di 8 ore passati in piedi, e quante volte nella vita privata e di ogni giorno ho arrancato, per continuare a camminare, per raggiungere le mete più banali, ma prefissate. E comunemente condivise.
Notti in bianco, volti scavati, spossatezza costante, queste e molte altre sono le trincee di chi vive con questa indesiderata compagna di viaggio.
Al cappellano non risposi. Annuii e lo lasciai proseguire col paziente successivo, dai bendaggi decisamente più visibili.

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